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A MOLENBEEK IL 90 PER CENTO DEI GIOVANI A SCUOLA DEFINISCE EROI GLI ATTENTATORI DI BRUXELLES
E ora un indovinello: qual è la seconda lingua più parlata in Svezia e Danimarca? Sei sicuro di volerlo sapere?
di Leone Grotti

«Eroi». È così che gli studenti di Molenbeek e Schaerbeek considerano i terroristi che il 22 marzo hanno compiuto gli attentati all'aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles: Zaventem Najim Lachraoui e Ibrahim El Bakraoui.
Yves Goldstein, consigliere comunale a Schaerbeek e coordinatore del partito socialista belga nella regione di Bruxelles Capitale, ha dichiarato al New York Times: «Le nostre città sono davanti a un enorme problema, probabilmente il più grande dalla seconda guerra mondiale. Com'è possibile che persone nate a Bruxelles, o a Parigi, possa chiamare eroi le persone che commettono atti violenti e terroristici? Questa è la vera domanda che dobbiamo affrontare».
Nei quartieri della capitale di Molenbeek e Schaerbeek, dai quali provenivano e dove si nascondevano i terroristi islamici (nella foto Salah Abdeslam a Molenbeek), continua il consigliere, «gli insegnanti mi hanno detto che il 90 per cento dei loro studenti, 17 e 18 anni, li definiscono "eroi"». In questi «ghetti abbiamo fallito» perché i giovani «non conoscono nessuno al di fuori». Per loro, aggiunge, «la religione è un pretesto. Non credono in niente, ma l'islam è comunque il modo che hanno trovato per esprimere e cristallizzare la loro radicalizzazione».
Come dichiarato dal senatore belga Alain Destexhe a Tempi, se esistono dei ghetti è anche per colpa del partito socialista coordinato da Goldstein: «Esiste un problema di fondamentalismo islamico che non è in linea con i valori della società belga. Ci sono scuole a Bruxelles dove gli studenti sono al 90 o anche al 100 per cento musulmani. In queste scuole non si rispettano i diritti delle donne, è difficile che le ragazze pratichino lo sport oppure non si mostrano le immagini di certe opere d'arte perché sono statue senza veli. Noi non abbiamo reagito a questi "incidenti" e ora ne paghiamo il prezzo».
Non c'è stata reazione «innanzitutto perché ci siamo votati all'ideologia del multiculturalismo, sbandierata da molti partiti politici, assumendone i princìpi senza un dibattito: ogni cultura doveva essere accettata in quanto tale. Poi c'è stata la tendenza a minimizzare come problemi individuali delle vere e proprie tendenze nella società. (...) È il politicamente corretto. Poi ovviamente qualcuno ci guadagnava. I partiti di sinistra hanno fatto questo ragionamento: più lasciamo fare agli immigrati quello che vogliono e più voti riceveremo in cambio. Effettivamente è andata così».

ASAD SHAH HA MANCATO DI RISPETTO A MAOMETTO, PER QUESTO L'HO UCCISO
Il sospetto è diventato conferma. L'assassinio di Asad Shah, 40 anni, musulmano proprietario di un piccolo negozio a Glasgow, Scozia, non è stata una reazione islamofoba di qualche estremista di destra agli attentati di Bruxelles, ma il frutto di odio religioso. Odio religioso islamico.
Il 26 marzo, secondo testimoni oculari, Tanveer Ahmed è entrato nel negozio di Shah e ha discusso con lui animatamente. Poi l'ha accoltellato, calpestato e si è seduto sopra di lui ridendo. Quando il fratello di Shah l'ha scoperto, si è dovuto contendere il corpo con l'assassino a forza, mentre questo continuava a colpirlo. Ahmed è stato subito arrestato, ma solo mercoledì 6 aprile ha confessato attraverso il suo avvocato. «L'ho ucciso per un solo motivo», sono le sue esatte parole riportate dal legale, «e per nessun'altra ragione: Asad Shah ha mancato di rispetto al messaggero dell'islam, il profeta Maometto, sia pace su di lui. Shah pretendeva di essere un profeta».
Questa dichiarazione sarebbe facile da comprendere se ci trovassimo in Pakistan, ma poiché tutto avviene in Gran Bretagna ha dell'incredibile. Shah apparteneva alla comunità ahmadi, una setta minoritaria dell'islam nata in India, che considera Mirza Ghulam Ahmad (morto nel 1908) come profeta venuto dopo Maometto e incaricato di concludere la sua missione da Allah. La setta, che con 10-20 milioni circa di aderenti costituisce a malapena l'1 per cento dell'islam, è diffusa soprattutto in Pakistan, dove è considerata blasfema dalla maggioranza sunnita, che la perseguita costantemente e ferocemente.
A quanto pare, gli ahmadi non sono al sicuro neanche in Gran Bretagna. L'assassino, Ahmed, proviene da Bradford e ha percorso circa 300 chilometri per uccidere Shah. Bradford è la città inglese dove i musulmani, praticamente tutti sunniti, costituiscono oltre il 25 per cento della popolazione con circa 132 mila fedeli provenienti dal Pakistan. Non a caso la città è soprannominata Bradfordistan ed è il luogo dove si è svolta l'incredibile epopea della famiglia di Nissar Hussain, cristiano pakistano convertitosi dall'islam e per questo perseguitato da 15 anni e quasi ucciso nel 2015 dai suoi ex amici musulmani.
Perché, sui 25 mila ahmadi residenti in Gran Bretagna, Ahmed ha ucciso proprio Shah? Solo pochi giorni prima, la vittima aveva scritto su Facebook: «Buona Pasqua specialmente alla mia amata nazione cristiana... seguiamo le orme dell'amato Gesù Cristo e portiamole al successo in entrambi i mondi». Nel comunicato affidato al suo avvocato, Ahmed ha negato di averlo assassinato per gli auguri di Pasqua: «Voglio che sia chiaro che l'incidente non ha niente a che fare con il cristianesimo. Anche se sono un seguace del profeta Maometto, amo e rispetto anche Gesù Cristo».
La precisazione non è rassicurante, anche perché Ahmed non si pente affatto dell'omicidio. Anzi, dopo aver fatto propaganda religiosa, conclude con un particolare inquietante: «Se non l'avessi ucciso io, l'avrebbero fatto altri e ci sarebbero stati più omicidi e violenza nel mondo». La famiglia di Shah, dopo i funerali, è ancora sotto sorveglianza per timore di nuovi attacchi.
Il Consiglio dei musulmani della Gran Bretagna, dopo aver condannato le violenze, ha commentato affermando che «i musulmani non dovrebbero essere costretti ad accettare gli ahmadi» all'interno dell'islam. A queste parole la comunità ahmadi inglese ha reagito duramente: «È evidente che nessuno li costringe, sono loro che ci escludono. Questa è la stessa intolleranza che ha favorito la crescita dell'estremismo in Pakistan». Ma non siamo in Pakistan, siamo in Gran Bretagna.

QUAL È LA SECONDA LINGUA PIÙ PARLATA IN SVEZIA E DANIMARCA?
Qual è la seconda lingua più parlata in Svezia? Ufficialmente, nessuna, visto che lo Stato non raccoglie dati a riguardo. Storicamente, invece, la risposta è semplice: il finlandese. Ma effettivamente, ricerche alla mano, è più sorprendente: l'arabo.
Mikael Parkvall, linguista all'università di Stoccolma, non trovando dati soddisfacenti, si è preso la briga di condurre uno studio su questo soggetto, concentrandosi sulla lingua natia della popolazione. Secondo un'indagine simile del 2012 di Sveriges Radio, 200 mila persone in Svezia parlavano il finlandese come lingua natia e 155 mila l'arabo.
Come dichiarato dal docente al Washington Post, è l'influsso di rifugiati e migranti dal Medio Oriente degli ultimi anni che ha fatto pendere la bilancia per l'arabo come seconda lingua più parlata in Svezia. Ed è un cambiamento storico: «Da quando la Svezia esiste, il finlandese è sempre stato la sua seconda lingua. Parliamo di almeno 1000 anni», ma solo nel 2015 163 mila persone, soprattutto provenienti da paesi arabi, hanno chiesto asilo nel paese. Se su questo tema mancano dati certi, il motivo però è culturale: «Noi siamo la capitale mondiale delle statistiche, il Grande fratello sa tutto di noi. Ma le autorità pensano che indagare la lingua è come indagare le etnie».
La Svezia non è l'unico paese europeo ad essere interessato da una crescita dell'arabo come lingua parlata comunemente. Sempre secondo Parkvall, anche in Danimarca ormai l'arabo è la seconda lingua, mentre è la terza in Francia e Olanda. La ricerca di Parkvall non è ufficiale ma se l'emittente radiofonica pubblica, Sveriges, ha appena annunciato il lancio di un talk show in arabo, un motivo ci sarà.

 
Titolo originale: A Molenbeek il 90 per cento dei giovani a scuola definisce eroi gli attentatori di Bruxelles
Fonte: Tempi, 8-14 aprile 2016